Gilda Policastro è scrittrice, critica letteraria e docente universitaria. Cura i corsi di poesia presso l’Accademia di Scrittura creativa “Molly Bloom”, a Roma e Milano, dal 2016. Ha collaborato con i supplementi culturali dei principali quotidiani e curato la rubrica “La bottega della poesia” per “la Repubblica” dal 2019 al 2021. È redattrice del sito “Le parole e le cose. Letteratura e realtà” e collabora con la rivista digitale “Snaporaz”. Ha pubblicato romanzi tra cui Il farmaco (Fandango, 2010), Cella (Marsilio, 2015), La parte di Malvasia (La Nave di Teseo, 2021) e libri di poesia tra cui Non come vita (Aragno, 2013), Inattuali (Transeuropa, 2016) e La distinzione (Giulio Perrone, 2023). Ha pubblicato diversi saggi dedicati ad autori contemporanei, tra i quali L’ultima poesia: scritture anomale e mutazioni di genere dal secondo Novecento a oggi (Mimesis, 2021).
Titolo: La Distinzione
Editore: Giulio Perrone editore, 2023
Diritti: r.vivian literary agency
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Essere attanagliati dal dolore è una pratica quotidiana per chiunque. Dare parole lievi al dolore è un progetto difficile. E Gilda policastro non solo ci riesce: è questa la sua lingua"
Luca Sossella
Titolo: La parte di Malvasia
Editore: La nave di Teseo + (22 aprile 2021)
Copertina flessibile: 208 pagine
Forein rights: rt.vivian@gmail.com
Premi letterari
La Giuria del Premio Viareggio-Rèpaci 2021 ha scelto la terna dei finalisti – tutta al femminile – per la narrativa:
Il pane perduto di Edith Bruck (La nave di Teseo), La parte di Malvasia di Gilda Policastro (La nave di Teseo) e Adorazione di Alice Urciuolo (66thand2nd).
Summary
Chi è Malvasia? Una donna che arriva non si sa da dove e che vive in paese da “straniera”: colta, anticonformista, eccentrica, la si è vista fare una lunga passeggiata e da quel momento di lei si sono perse le tracce. Quando viene ritrovata morta, si pensa all’omicidio passionale e scattano le indagini, affidate al maresciallo Arena e al suo assistente Gippo. Nel susseguirsi di testimonianze e di ipotesi, indagatori e indagati prendono a confondersi, in una girandola di voci che sfuma e consegna alla stessa identità mutevole tutti i protagonisti. Il giallo della morte diventa il grigio delle esistenze di individui mortificati nelle loro ambizioni e svelati nelle loro nature contraddittorie ed elastiche, nella capacità comune di provare sentimenti opposti e di compiere azioni impensabili. Come nella tragedia greca, l’umano supera sé stesso nell’estremo, ma nella tragedia moderna si muore senza un motivo e senza un colpevole. Sfida i grandi classici della letteratura non-gialla, questo nuovo romanzo di Gilda Policastro: la domanda sull’assassino diventa l’indagine compiuta all’interno della stanza più segreta della coscienza, dove immaginazione e crudeltà, violenza a tenerezza sono parte della stessa radice. Dal principio di generazione a quello di de-generazione, le storie che ruotano attorno alla vite che è Malvasia somigliano a un puzzle scomposto, le cui tessere non vanno a posto. Come nella vita.
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«Gilda Policastro è al suo quarto romanzo e in quest’ultima prova mette a segno un colpo da narratrice di razza: fingere di voler avviare un’indagine su una donna morta e inscenare un teatro di voci che coralmente raccontano più vite, in coerenza con il riferimento del titolo al vitigno. Una morte e tante vite, perché “il morto non è un morto ma la morte”: quasi mai un accadimento eccezionale, come in un delitto, ma un momento atteso e fatale, specie nella sua imminenza dopo una diagnosi. Questo La parte di Malvasia lo racconta anche intessendo il narrato di citazioni e riferimenti colti (dal Gadda della Cognizione del dolore al Beckett del Krapp’s Last Tape), ma non è in questo la sua potenza. Piuttosto, nell’oscillazione della coscienza (di cui la pagina restituisce il flusso) dalla lucida consapevolezza della fragilità al buio in cui la precipitano i vuoti di senso come la malattia. Il tema, già caro all’autrice nell’esordio del Farmaco, viene qui affrontato con una nuova, più dolente umanità: nel rapporto tra Malvasia e sua madre morente si ritrovano i contrasti (“il confine esteriore dei vestiti e quello introiettato dei divieti”) e peggio ancora i non detti della più stretta tra le maglie della vita sociale, la famiglia, luogo parossistico e ossimorico di dolore e di cura. Una delle più belle pagine del libro è dedicata alla ricostruzione pseudoetimologica del verbo dialettale cuttuniare: proteggere, allestire una cuccia, ma anche costringere, trattenere, soffocare. La parte di Malvasia è un libro da leggere non tutto d’un fiato, come si dice spesso dei romanzi, ma a voce alta: per apprezzarne il ritmo, i nutrienti della scrittura, dalle percezioni minute alle pseudo-sentenze (“Madre è la specie dell’insoddisfazione”). ...» Romana Petri
22/04/2021 10:57:59
Ho aperto il libro appena acquistato e non sono riuscito a smettere di leggerlo finché non l'ho finito. Un'esperienza molto singolare: voci si rincorrevano nella mia testa e producevano immagini vorticose, come se fossi stato parte in causa di questo "poliziesco/non poliziesco" (scritto meravigliosamente bene), come se fossi coinvolto in prima persona nella scena e persino nelle responsabilità. Non so come l'autrice abbia fatto a tenere con fermezza la sua prosa senza avere cedimenti. Resta infine un'atmosfera sospesa, mi sa che lo leggerò varie volte per misurarmi meglio con la sua complessità. Complimenti.
Comincia che somiglia a un giallo classico: l’appartamento dove la donna — trovata morta — era venuta ad abitare nel paesello, eccentrica e solitaria (la "straniera"). Da lì l’indagine poliziesca — commissario Arena, aiutante Gippo (vero protagonista: un po’ sceneggiato tv d’antan e un po’ Ingravallo gaddiano) — verbali e interrogatori, ascolto degli indiziati e testimoni (amanti di lei, datori di lavoro, familiari). Poi «all’improvviso, di colpo, ex abrupto» (terna avverbiale qui usata) La parte di Malvasia di Gilda Policastro (La nave di Teseo) diventa un altro libro, anzi tanti altri libri: meditazione filosofica sul mistero del male, diario intimo, reportage («Napoli quando ci arrivi dall’autostrada ti pare una spalmata orizzontale di cemento: i palazzi non si stagliano, piuttosto si affannano a starci tutti»), cronaca nera (femminicidio), memoria del sottosuolo, radiografia del Corpo (perverso o in disfacimento)...
Ora, questi innumerevoli libri, che «si affannano a starci tutti», alla fine si ricompongono non dico in una trama lineare ma in una struttura unitaria? Forse sì, ma il laborioso palinsesto del romanzo chiede molto al lettore, il quale dovrà ricostruire il puzzle dei frammenti narrativi (destreggiandosi tra le citazioni letterarie) e all’indagine su Malvasia dovrà aggiungerne un’altra e più impegnativa, su di sé e sulla sua "parte di Malvasia".
L’ibridazione dei generi si rispecchia nell’impasto linguistico: idioma dei social, lessico ricercato («pergiunge la morte»), burocratese, terminologia delle perversioni («fistare»), dialetto («cuttuniare»: prendersi cura). Il punto di vista cambia continuamente: terza persona, prima persona, seconda persona, con lieve effetto straniante, mentre la sintassi si dilata fino al virtuosismo (pagine senza punto) e poi si contrae in frasi aforistiche. Il tema del libro è la inquietante contiguità tra piacere e dolore: si corteggiano a vicenda, e non si sa quando comincia la patologia. Ma un possibile filo rosso dell’intera narrazione è l’ironia, una naturale disposizione ludica, la comicità legata al corpo, e che esplode dal riconoscimento del carattere ambiguo del reale («l’evidenza non è uguale per tutti»), una svagata leggerezza nel preciso referto sull’orrore, storie di malattie terminali accanto a storie di corna. A proposito di Gippo (che ha il padre nano, la mamma malata e un’amica che si chiama Gippa!), alle identità prima segnalate occorre aggiungere quella schizoide: «Non sono Gippo, mi sento Gippo». Indagando sul delitto arriva a identificarsi con la vittima, a innamorarsene. La sua catabasi nell’"indifferenziato psichico"(fatto di scarti, graffi, spazzatura) lo conduce in una zona buia, indistinta: è sia uomo che donna (anche Malvasia si vestiva a volte da uomo), sia vittima che aguzzino.
Sì, la letteratura è «la più grande bugia che l’uomo ha inventato », come qui si afferma (Malvasia scriveva racconti). Però è una bugia che deve essere detta bene, e per questo non può attingere ad altra letteratura ma alla nostra esperienza — viscerale, affettiva — del mondo. In Gippo tutto è improbabile tranne la psicologia, e un destino ineludibile. Se i personaggi del libro fossero solo concrezioni verbali, fantasmi di un’immaginazione gratuita e senza limiti, ci annoierebbero. E invece prendono vita proprio perché interrogano temerariamente i demoni — nostri e dell’autrice. Il lettore potrebbe anche smarrirsi nel «vuoto al confine tra la vita e la morte» qui evocato, o nelle fantasie sadomaso di Gippo. Ma poi il tono della narrazione si mette a fare il verso alle vecchie zie («come ti sei fatto serio! »), e si affida all’ironia popolare rappresa in una battuta («una piena di sofferenza che la metà bastava»). Tormentone del romanzo è il monito del commissario: «Mai lasciare nulla di tentato». Già, a che pro "tentare" di approfondire la verità? Al fondo c’è solo — leopardianamente — il niente. Da quell’"indifferenziato psichico" non può che nascere il comico, vero Gippo?
Filippo La Porta- La Repubblica
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